venerdì 26 settembre 2008

Quello strano bruco...


Mi ha portato Enrica alcune foto digitali scattate nel sottobosco (quel poco che ne resta) dell'area ex-agraria, al confine sud-orientale del Parco. Si tratta di un variopinto bruco (una larva di farfalla) del quale Enrica acrebbe gradito qualche informazione dettagliata.
L'occasione è buona per coinvolgere Marco Cuconati, naturalista ed esperto di entomologia che ha volentieri accettato di mettere a disposizione dei lettori le sue competenze in materia. Di seguito, la sua diagnosi sul misterioso bruco, del quale pubblico nella galleria fotografica (animali) tutte le foto di Enrica:

"Direi al 99,9% che si tratta di un bruco di Hyloicus pinastri L. (sfinge del pino). E' uno Sfingide (es. la Sfinge testa di morto appartiene alla stessa famiglia), famiglia caratterizzata da bruchi spesso grandi che portano posteriormente una piccola appendice a forma di corno. Il nome deriva dall'attitudine di alcuni bruchi di immobilizzarsi assumendo una posizione tipica con la testa e il torace sollevati. Il bruco della sfinge del pino si trova sulle conifere (soprattutto pino silvestre e abete rosso), presente in tutta Europa. La colorazione ha una funzione mimetica (i bruchi più giovani sono verdi con strisce giallo-bianche). Ha una generazione annuale. Il bruco completa il suo sviluppo a fine settembre e si impupa tra il muschio o le foglie della lettiera o appena sotto la superficie del suolo. L'adulto sfarfalla a giugno o luglio. E' una specie ad ampia diffusione (Europa e Asia fino al lago Bajkal)"

domenica 21 settembre 2008

Parlando di mammiferi



Sulle specie di mammiferi presenti nel Parco le informazioni disponibili sono scarse e frammentarie.
I nostri abituali contatti con i rappresentanti di questa classe sono pochi: minilepri (che hanno conosciuto una recente esplosione demografica), scoiattoli (sempre più facile incontrarli, e per fortuna non si hanno segnalazioni della specie americana, potenziale minaccia per il nostro scoiattolo rosso), qualche riccio e, la sera, qualche pipistrello. Di alcuni – volpe, mustelidi, per fare degli esempi -esistono solo sporadiche segnalazioni.
Ignoti ai più, a causa di abitudini crepuscolari o notturne, di un comportamento schivo e di dimensioni ridotte, esiste nel parco un nutrito drappello di piccoli mammiferi (topolini, crocidure, toporagni, arvicole, ghiri, talpe, …) la cui esistenza si manifesta a noi solo attraverso le tracce che lasciano: resti di alimentazione, escrementi, tane, accumuli di terra.
L’attività di studio di questi animali si basa sull’analisi delle tracce, sulla cattura mediante trappole e, più raramente, mediante l’osservazione. Non va infine sottovalutata la preziosa attività di “raccolta dati” condotta dai predatori naturali di queste specie. È nota l’abitudine di molte specie di rapaci notturni (classico esempio nel parco di Monza è quello dell’allocco) di rigettare i resti indigeribili delle loro prede in forma di borre, rigurgitate da posatoi fissi e di facile individuazione (per gli esperti). L’analisi delle borre (che contengono essenzialmente peli ed ossa, per quel che riguarda i mammiferi) permette non solo di trarre conclusioni sulle preferenze alimentari degli uccelli, ma anche sulla diversità e consistenza delle prede.
L’ispirazione per questa breve riflessione me l’ha data il gatto che frequenta la cascina Frutteto. Abile predatore, la cara felina (è una femmina) mi ha procacciato, nelle scorse settimane, ben tre arvicole in giorni consecutivi. Non sono un esperto. Mi sono limitato a fotografarle e a misurarne la lunghezza (93mm, coda inclusa), prima di lasciarle al loro naturale destino. Probabilmente si tratta di una arvicola di Savi (Microtus savii), ma sono preparato alla smentita degli esperti

domenica 7 settembre 2008

Di come i soldi potrebbero essere meglio spesi...



Ieri, 6 settembre, ho dedicato un paio d’ore, nel primo pomeriggio, ad un giro nel Parco, nella zone dell’ex-facoltà di Agraria.
Abbiamo già avuto modo di commentare i profondi cambiamenti dell’area a causa dei lavori di “riqualificazione”. Non era stato però affrontato il tema, a me particolarmente caro, dello spreco di risorse economiche causato dalla scelta di alberare con giovani ippocastani la direttrice che va dalla nuova entrata di Villasanta al ponte delle catene, in nome ripristino filologico dell’area (ovvero, riproporre esattamente il disegno originale del Parco).
Già ai tempi degli interventi (si era alla fine degli anni ’90) gli ippocastani subivano, in Italia come nel resto d’Europa, l’attacco di parassiti minatori degli apparati fogliari, che causavano il precoce disseccamento delle foglie e l’arresto dei processi di crescita delle piante. Una malattia causata da un piccolo lepidottero di origine balcanica, la Cameraria ohridella, privo di predatori naturali e, quindi, di qualsiasi meccanismo di contenimento delle popolazioni. La patologia non uccide le piante adulte ma, impedendo i processi fotosintetici, impedisce la crescita ed indebolisce le giovani essenze. Risultato? Lo vedete con i vostri occhi nelle due immagini che pubblichiamo, che ritraggono un apparato fogliare compromesso dalla malattia, ed il triste scenario di uno stitico viale per il quale, a distanza di un decennio, ci saremmo potuti legittimamente aspettare miglior sorte.
Per approfondimenti, pubblichiamo a fianco (nella sezione “Archivio articoli”) l’estratto di una dispensa realizzata dal Comitato per il Parco (www.parcomonza.org) in occasione di un recente incontro (novembre 2007) con la cittadinanza organizzato sul tema delle principali fitopatologie che affliggono il Parco. Un riconoscimento a chi ha lanciato il primo allarme, ahimè inascoltato…