lunedì 30 marzo 2020

Se vi manca il Parco di Monza - parte 19: Da un mondo all'altro


Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.


Ci sono luoghi del cuore che possono essere definiti in questo modo per la loro bellezza o singolarità o per il fatto che evocano ricordi e situazioni vissute.
A Monza c’è una basilica di antica origine e, a poca distanza, l’ingresso al Parco che amo di più: sto parlando della chiesa di Santa Maria delle Grazie e dell’entrata all’area verde ubicata a poca distanza, in via Montecassino.
La chiesa è stata eretta nel 1463 in stile tardogotico, ma non quel gotico esuberante e fiorito che caratterizza la cattedrale di Milano e, seppur molto diversamente, la facciata del Duomo della nostra città; è un gotico più dimesso e contenuto, tipico di tutte le chiese conventuali: Santa Maria delle Grazie infatti è edificio francescano.
Dal parco è separata solo da un muro, ma quando si arriva sul piazzale davanti alla facciata, già se ne assapora la frescura e l’ondata di verde rigenerante.
Il colpo d’occhio sulla chiesa, giunti in via Montecassino, è suggestivo: sfilano il campanile, il fianco e la facciata con finestra serliana e le monofore spezzate dal portico, aggiunto nel 1632.

Peccato che l’interno abbia perduto la decorazione originaria in seguito ad un devastante incendio divampato nel 1893.

Poco più avanti si supera il ponte sul Lambro e si perviene ad una porticina che immette direttamente nel parco: a mio parere l’accesso più bello perché il tuffo nel bosco è immediato ed impetuoso. Si passa da un mondo ad un altro: certo il passaggio è mitigato dalla spiritualità francescana e già rilassante di Santa Maria delle Grazie e dal bel ponte che schiude la vista del Lambro, ma si salutano in fretta cemento e auto -spesso nei giorni festivi parcheggiate in modo selvaggio sul piazzale della basilica ed in via Montecassino- per pervenire in luogo fresco ed ombroso dove sono gli alberi a dominare e a scandire il ritmo delle stagioni!

Il piccolo ingresso è sempre affascinante sia che lo si varchi d’inverno quando rami e fronde nude favoriscono l’osservazione degli uccelli, sia durante l’autunno o la stagione primaverile; nel primo caso si apprezzano le tonalità dei gialli e degli arancioni in una miriade di sfumature, in primavera è la sinfonia di canti ad attirare l’attenzione.

Ma credo che d’estate il passaggio produca le sensazioni più nette. Quando la canicola imperversa e non lascia scampo, varcare il piccolo ingresso fa assaporare un’immediata ventata di freschezza: un piacere impagabile.
E una volta all’interno del Parco, a piedi o in bicicletta, vien proprio voglia di perlustrare il bosco e di percorrerne i sentieri. Tra l’altro poco oltre, costeggiando il Lambro, santa Maria delle Grazie offre un altro suggestivo scorcio.

Edo Melzi - Comitato per il Parco di Monza

sabato 28 marzo 2020

Se vi manca il Parco di Monza - parte 18: La voce dello scoiattolo (cap. 1)

Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

Nel nostro Parco, lo scoiattolo europeo è presente da tempo. Le prime segnalazioni rimontano al 2000. Argomento da approfondire: la competizione col grigio americano è problema di grande momento. Solo una nota, però. Gli individui di scoiattolo europeo che han colonizzato il nostro Parco vengono - con buonissima probabilità - dal Parco Regionale di Montevecchia e della Val Curone. Dove vennero reintrodotti su progetto del grande Massimo "il dott" Favaron, ormai da tempo in pianta stabile su al Parco dello Stelvio.

Ecco un paio di tracce sonore. Che, forse, faranno ricredere molti su questa specie: suoni che non suscitano propriamente tenerezza.


15 ottobre 2018
Un estratto da un lungo monologo del nostro. Luogo: la riva del Lambro, tra il Ponte delle Catene e il Ponte delle Grazie Vecchie. In sottofondo, proprio le campane delle Grazie Vecchie. 

La figura mostra il sonogramma: frequenza (kHz) contro tempo (secondi).


Come si vede, si alternano sequenze di brevi squittii e versi striduli più prolungati.


17 ottobre 2018
Un'altra registrazione: abbiamo, in questo caso, una serie di brevi emissioni. Il verso dello scoiattolo si alterna ai richiami del pettirosso (clic, clic).
Il luogo della registrazione è sempre lo stesso: la riva del Lambro, tra il Ponte delle Catene e il Ponte delle Grazie Vecchie.
Scoiattolo europeo 17 ottobre 2018

Anche per questa registrazione abbiamo il sonogramma: le bande verticali più larghe sono relative alle emissioni sonore dello scoiattolo, le righe verticali strette rappresentano i richiami del pettirosso. Come si nota, hanno frequenze diverse. Il sonogramma è relativo ai primi 50 secondi circa.


In questa figura abbiamo le due emissioni sonore del tipo breve a confronto. Ad un ascolto affrettato, potrebbero assomigliarsi. In realtà, i sonogrammi mostrano una differenza piuttosto netta. Due esemplari differenti? Molto probabile.


alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

venerdì 27 marzo 2020

Se vi manca il parco di Monza - parte 17: I roccoli del Parco (cap. 2)

Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

La storia del nostro Parco è stata caratterizzata dalla presenza di diversi roccoli (sulla definizione di roccolo, vedi puntata precedente). 
Non abbiamo molte testimonianze e molti documenti. Ci viene in aiuto la cartografia, passione e malattia di chi scrive. 

La storia del nostro Parco comincia con la realizzazione della Villa Reale. Il territorio, alla nascita della Villa, aveva carattere agricolo. Le mappe dell'epoca mostrano la presenza di un roccolo, poco lontano dall'area su cui sarebbe stata edificata la nostra Villa. Questa struttura venne smantellata per far spazio ai Giardini.

La figura mostra la collocazione di questo impianto, che doveva avere struttura e funzione classiche: una risorsa per procurarsi carne.


Il Piermarini progettò non solo la Villa ma lavorò anche al disegno e alla realizzazione dei Giardini. L'opera del grande architetto fu molto articolata e complessa. Recentemente, un bel volume ha ricostruito la storia dei Giardini nel periodo tra il 1777 e la fine del 18° secolo ("I Giardini Arciducali di Monza a cura di Pierluigi Tagliabue, ed Il Libraccio, 2017). Vi rimando a questa pregevole pubblicazione.

Il Piermarini inserì anche un roccolo nei Giardini. Era collocato a ridosso dell'ala nord della Villa. Si trattava di un impianto a carattere soprattutto decorativo. E venne disegnato come una sorta di labirinto formato da un intrico di vialetti e piccole rotonde, immersi in mezzo alla vegetazione di un boschetto. L'Arciduca e la sua corte ne avrebbero fatto uso soprattutto come passatempo.


Al Piermarini succederà Luigi Canonica, cui si deve gran parte del progetto del Parco. In questa mappa del 1815, il Canonica rappresentò lo stato di fatto. A ridosso dell'ala nord della Villa Reale, il roccolo è sparito.

Le mappe dell'800 mostrano invece un altro impianto, collocato nella parte nord del Parco. Vediamo. Riconosciamo la tipica struttura dell'architettura vegetale. L'impianto era collocato a NW della Fasanera (Fagianaia, attuale ristorante Saint Georges Premier). 
La struttura è presente nella mappa del Canonica (1815)


In una delle famosissime carte del Brenna (1850), si vede molto bene la torretta del roccolo. Da tifoso del grande tenente, mi compiaccio. 


Anche di questo impianto non è rimasta nessuna traccia. 

Se giriamo per la nostra Brianza, non è così impossibile, invece, rinvenire tracce o relitti di vecchi roccoli. Bisogna lavorare di intuito e di esperienza. Tenendo presenti alcuni trucchetti, che riporto qui sotto.
Un roccolo non era piazzato in zone ribassate, fondi di vallette e simili, ma sempre su alture e dossi. Doveva essere ben visibile dagli uccelli. Intorno, di conseguenza, non poteva esserci un bosco. Una situazione favorevole prevedeva la presenza di aree libere dal bosco nell'intorno. Cerchiamo, quindi, gruppi di piante che spicchino su un dosso. Come visto nella puntata precedente, il carpino è albero principe per questi impianti: controllare se il gruppo di alberi sospetto è caratterizzato dalla presenza di questa specie. A volte, troviamo invece conservata la torretta. In qualche caso, queste torrette sono state sistemate e riqualificate. Un bell'esempio è su a Casatenovo, in località Rancate.

alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

giovedì 26 marzo 2020

Se vi manca il parco di Monza - parte 16: I roccoli del Parco (cap. 1)

Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

Il termine roccolo indica una struttura tipica delle nostre zone. Diffusi tra Lombardia e Veneto, sono noti dal XV secolo. Si tratta di una struttura formata da elementi vegetali. Hanno pianta circolare o rettangolare. All'esterno, abbiamo una serie di alberi disposti a formare una architettura: solitamente sono piantati a formare due filari che corrono tra loro paralleli. Generalmente, si utilizza il carpino, per le sua buona capacità di adattarsi alle potature e per la sua resistenza. Non solo: d'inverno tende a mantenere il fogliame secco. L'insieme di questi alberi crea una sorta di pergolato. L'area all'interno è occupata da piante, in genere arbusti, gradite dagli uccelli perchè produttrici di frutti e bacche. All'insieme di elementi vegetali, veniva aggiunta una costruzione, in legno o in pietra. Si tratta di una torretta o di un capanno.

I roccoli nacquero come strutture per la caccia. Le architetture vegetali descritte servivano a nascondere le reti per la cattura degli uccelli. Gli arbusti e, più in generale, le piante produttrici di bacche e frutti avevano la funzione di attirare gli uccelli. I periodi di massima attività durante l'anno corrispondevano ai mesi della migrazione.

La torretta - o il capanno - serviva ai cacciatori per stare nascosti e tirare le reti al momento opportuno. Prima di tirare le reti, gli uccelli venivano spaventati, o con dei rumori, o usando un finto rapace o un rapace impagliato. Per attirare le vittime della caccia, si utilizzavano altri uccelli tenuti in gabbiette: coi loro canti attiravano altri volatili.

Questa pratica - da tempo vietata nel nostro paese - potrà sicuramente far storcere il naso a molti. Ma va collocata nei contesti storici. In epoche in cui integrare le diete con della carne non era poi così facile e neppure scontato.

I roccoli erano, in ogni caso, bellissimi esempi di architetture vegetali. Alcuni si conservano ancora, e lo meritano, proprio per il loro valore storico e monumentale. Non solo, però: qualche roccolo è tuttora attivo. Ma non per la caccia: gli uccelli vengono catturati ma per essere inanellati, una procedura molto importante, che permette di raccogliere milioni di dati scientifici, utilissimi per la tutela di tante specie e del territorio. Tra i più noti: Costa Perla su al Monte Barro, e Arosio. Il primo è gestito dal Parco Regionale del Monte Barro, il secondo è privato.

Il nostro Parco ha tuttora un roccolo. O dovremmo dire abbiamo quello che resta di un roccolo. E' localizzato nella zona in concessione all'autodromo. Lo vediamo indicato sulla mappa. Non si hanno molte notizie su questo impianto. Non era compreso nel progetto originario del XIX secolo. Potrebbe essere stato inserito a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Sappiamo che era attivo nella prima metà del secolo scorso. Gli scarni documenti parlano di una concessione rilasciata - dietro pagamento di una quota - ai signori Tagliabue, Gilera e Marelli. La mappa mostra il roccolo attuale. Il prato sui cui sorge prende proprio il nome da questa struttura: Prato del Roccolo.


La struttura di questo roccolo è quella classica. Un doppio filare in carpini ne percorre il perimetro. All'interno abbiamo una serie di alberi e arbusti fruttiferi. Il diametro dell'impianto è di 55 metri circa. Manca qualsiasi traccia della vecchia torretta, che era sicuramente presente.
Nel 2007 si è concluso un lavoro di sistemazione delle alberature, cominciato dopo il 2000. Sono state anche effettuate nuove piantumazioni, a sostituire vecchi alberi malandati. A finanziare in parte i lavori abbiamo contribuito anche noi del Comitato per il Parco: attraverso un contatto con uno sponsor. 

Le storie dei nostri roccoli però non si fermano qui. Quello descritto non è l'unico esempio presente nel nostro Parco nel corso della sua storia, come vedremo nella prossima puntata.

alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

martedì 24 marzo 2020

Se vi manca il parco di Monza - parte 15: Sua maestà il colombaccio


Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

Foto di Francesco "Checco" Ornaghi


Il piccione domestico o piccione torraiolo non è uccello particolarmente amato: comunissimo, invasivo, invadente, nuoce gravemente a chiese monumentali e palazzi storici con le sue deiezioni.
Discorso completamente diverso riguarda il colombaccio (Columba palumbus), volatile vigoroso e decisamente più grande del domestico, se ne distingue nettamente oltre che per le dimensioni, anche per il colore del piumaggio: testa e schiena tendenti al blu, coda e punta delle ali scure, petto di un bel grigio-rosaceo. L’elemento caratterizzante sono le macchie bianche sul collo che lo rendono inconfondibile.

Foto di Francesco "Checco" Ornaghi dal blog CROS Varenna

Il volo è deciso e potente, l’apertura alare può raggiungere gli 80 centimetri. Dal punto di vista caratteriale il colombaccio risulta estremamente timido ed elusivo e si invola rapidamente al minimo segnale di pericolo: tra l’altro, quando prende il volo, produce un rumore ben avvertibile.
Ho avuto occasione di vederlo più volte; anche sui due magnifici cedri del Libano che adornano il giardino della scuola elementare proprio di fronte a casa mia. Il suo richiamo è molto simile a quello della tortora dal collare orientale: “dù- dùuùu…du-du”.
Il nido è posto in alto, fra le fronde, ed è costituito essenzialmente da rami e paglia.
Nel bel volume “Gli uccelli del parco di Monza” la sua consistenza, nell’area verde, è stimata in una cinquantina di esemplari. Un numero ragguardevole, ma essendo il dato di diversi anni fa, non ho idea di quanti possano essere i colombacci presenti oggi.
In definitiva un bell’animale, sempre interessante da osservare!

Edo Melzi - Comitato per il Parco di Monza

lunedì 23 marzo 2020

Se vi manca il parco di Monza - parte 14: Tra api e tigli, e la prima rondine

Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

Qualche chiosa tra api e tigli.
Qualcuno - Alberto Beretta - segnala la presenza di un apiario a poca distanza dalla Porta di Vedano. Conosco questi alveari, collocati all'interno del giardino anzi del parco di Villa Litta. Non lo avevo considerato nel computo totale, perchè, appunto, piazzato fuori dal nostro Parco. Ma le simpatiche api di queste arnie sfruttano sicuramente le piante, e le altre risorse, del Parco. Quindi inseriamole come sorta di appendice al computo pubblicato qui l'altro giorno. Un grazie ad Alberto per il commento.
La mappa mostra l'ubicazione dell'apiario citato.


Alberto si dichiara anche preoccupato per i tigli dei Boschetti. La loro forma a candelabro non sarebbe situazione delle migliori per il nostro lettore - e attento osservatore - che scrive: "i tigli, con quella forma a candelabro, mi danno l'impressione di sofferenza.... non sarebbe meglio diradarli? Così che la chioma può svilupparsi in larghezza". Ci vengono in aiuto le note tecniche del Giorgio Buizza da Lecco, agronomo incaricato di stendere il progetto di riqualificazione dei Boschetti. Buizza ha censito tutti gli alberi. I tigli citati, in realtà, non sono messi così male. Ma l'impianto ha una densità troppo alta. Troppe piante in poco spazio. Ciò pregiudica la salute di questi alberi, a lungo andare. Buizza propone di diradare l'impianto. Alcune piante di tiglio verrebbero tolte. Ma non buttate via. Verrebbero spostate in altre parti dei Boschetti. Esistono ormai tecniche alquanto raffinate per ottenere buoni risultati, quando si trasferiscono piante di quelle proporzioni.

Queste operazioni di diradamento sono state in effetti compiute sulle piante del Viale dei Tigli nel Parco, di recente: lo scorso anno sono state eliminate alcune piante, perchè ormai compromesse.


La prima rondine
Oggi prime rondini della stagione. Sentite, passando per via Carlo Porta. Dato da celebrare? Perchè no?
Nel Parco, la specie è presente, anche se sono diminuiti gli effettivi negli anni. Ma queste sono altre storie, come sempre.

alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

domenica 22 marzo 2020

Se vi manca il parco di Monza - parte 13: Unter den Linden in salsa monzese


Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

Per tutti o quasi, è un gradevole benvenuto che il Parco ci regala quando entriamo da Porta Monza. Per tanti corridori è il punto di partenza e di ritrovo per le sgambate. Ed è luogo di appuntamento per tante iniziative. E' il Viale dei Tigli.

Unter den Linden: letteralmente "Sotto i tigli" (die Linde, femminile, è il tiglio in tedesco). La strada più famosa di Berlino. Il nostro Viale dei Tigli al Parco non ha niente da invidiare alla - più nota - via berlinese. Anzi. Spiegava il bravo Giorgio Buizza - agronomo, autore di tanti progetti sulle alberature del Parco, e direttore negli anni '80 del Parco per un breve periodo - che il nostro viale summenzionato ha molte più piante di tiglio rispetto alla versione tedesca.

Gli alberi di tiglio sono disposti in più filari paralleli. La visione ha un tocco di monumentalità, ma discreto come si deve ai grandi. E il tiglio è una grande pianta, ma misurata nella sua maestosità. E' molto amato dai giardinieri e dai progettisti di giardini e alberature. Per la sua eleganza, certo, ma non solo: è pianta robusta e resistente. Nel periodo delle fioriture, ci mette un tocco prezioso: il profumo. Se si aggiunge che dal tiglio proviene un miele tra i più diffusi ed apprezzati, il gioco è fatto.



Se percorrete il Viale dei Tigli, l'invito è a soffermarsi sulle caratteristiche della pianta: la chioma ben strutturata, il fusto verticale, le foglie a forma di cuore. Non solo. Alla base del fusto, si vedono spuntare delle pianticelle. Sono i polloni: ramificazioni (sorte di pianticelle), che si formano partendo dalla base della pianta. Non è fenomeno comune a tutte le specie, ma è molto tipico per il nostro tiglio. 
Il botanico di turno vi spiegherà che nel Parco abbiamo più specie di tiglio. E che esistono più varietà, selezionate nel tempo dai giardinieri sulla base delle caratteristiche. Come spesso capita per le piante, anche i tigli hanno la tendenza ad ibridarsi, cioè a dar vita ad incroci. Il tiglio è anche specie forestale, tuttavia, non dimentichiamolo. Memorizziamone le caratteristiche - non è operazione da riservarsi ai tecnici del settore - e cerchiamone esemplari in giro per la nostra città, oltre che al Parco. Una puntata ai Boschetti ci permetterà di individuare un altro Unter den Linden locale (vedi mappa). In questo caso, le piante hanno tutte una caratteristica struttura a candelabro. Non casuale, ovviamente.


E se andate fuori porta, una piccola curiosità. A Figino Serenza - lungo un sentiero che costeggia dall'alto la gola del Torrente Serenza, a poca distanza dalla locale scuola media - c'è uno strano boschetto a tigli. I polloni (vedi sopra) vengono solitamente tagliati dai giardinieri. In questo caso, invece, hanno avuto la possibilità di svilupparsi liberamente negli anni. Fino ad assumere le fattezze di veri e propri alti alberi, che fan da cornice al tronco madre. Uno spettacolo affascinante. Molto probabilmente - ipotesi del sottoscritto - si tratta di una piantagione di tigli (che sono ordinati in classici filari), non più curata dall'uomo. 

(Ieri ho mancato all'appuntamento con questa serie, scusate. Oggi, chissà, doppio appuntamento).

alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

venerdì 20 marzo 2020

Se vi manca il parco di Monza - parte 12: Per chi ronzano le api

Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

Esistono abitanti (quasi) invisibili nel nostro Parco. Invisibili ma utili, anzi fondamentali: le api su tutti. Da tempo, si parla del problema delle api, la cui popolazione è in drammatica diminuzione. Non vado oltre.

Anche il Parco ha i suoi apiari. Il termine apiario indica un insieme di arnie, piazzate in un'area. L'apicoltore non può collocare i suoi apiari dove vuole. Devono essere rispettati dei protocolli fissati dalla legge. Le disposizioni tengono conto della salute degli animali - le api sono piuttosto delicate -, di problematiche di igiene alimentare, e della sicurezza delle persone. Il titolare terrà ovviamente conto delle fioriture, e di altri aspetti: presenza di acqua (vitale per le api), assenza di ostacoli (le api devono poter avere a disposizione spazi aperti intorno all'arnia, almeno sul lato dell'ingresso dell'arnia), esposizione al sole. 

Le mappe mostrano l'ubicazione degli apiari nel nostro Parco:
- Cascina Frutteto (Scuola Agraria del Parco di Monza)
- Cascina Molini Asciutti
- Cascina Molini di San Giorgio




A Cascina Frutteto, le arnie sono curate da collaboratori della Scuola di Agraria del Parco di Monza, che - come sapete - ha sede presso la Cascina. Ai Molini Asciutti, è attiva una azienda che fa apicoltura, esterna ai gestori della Cascina. Ai Molini di San Giorgio, mi risulta, gli apiari appartengono a più soggetti. 

Tutti gli apiari dispongono delle risorse necessarie alle nostre amiche api: fioriture e acqua. 

Il miele prodotto è, fondamentalmente di 3 tipi: acacia - il termine indica la robinia -, tiglio, millefiori.  
Negli ultimi tempi, gli sconvolgimenti climatici hanno causato gravi problemi alla produzione. Su tutte, quella del miele di acacia. Lo scorso anno, il freddo ha bloccato le api durante una delle più importanti fioriture dell'area padana, quella della robinia. Col freddo o con la pioggia, l'ape non si muove dall'arnia. E consuma tutte le sue scorte. Un modesto suggerimento per il Consorzio Parco - ente che ha in carico la gestione del complesso Parco e Villa Reale - viene spontaneo. Potrebbe essere importante dar vita a soluzioni che possano aiutare i nostri apicoltori. Viste le problematiche legate alla robinia, si potrebbe valutare qualche intervento sulle aree prative, creando fasce a piante erbacce gradite alle api, con fioriture che andrebbero ad integrare quelle che attualmente garantiscono la produzione di vasetti di millefiori. Pensiamoci.
E i prati costituiscono altro argomento di grande interesse. Da parlarne in seguito.


alla prossima 
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

giovedì 19 marzo 2020

Se vi manca il parco di Monza - parte 11: La Collinetta di Vedano (cap. 2)


Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

"Se non ne trovo una entro una mezz'ora, chiudo tutto: basta natura!", così, più o meno, il Marco Paleari, alcuni lustri fa. Guardia Ecologica Volontaria (GEV), il nostro: in servizio per il Parco Regionale Valle del Lambro. Il luogo: un bosco, anzi una pineta, se la memoria non mi tradisce (in realtà, non ero presente). Oggetto della ricerca: le borre. Il termine indica delle pallottole che molte specie di uccelli rigurgitano dal becco, nel corso dei processi digestivi. I pennuti non hanno una dentatura. Nel loro ventriglio (sorta di stomaco), il cibo arriva in modo diretto, ovvero senza essere oggetto di una vera masticazione. Nel ventriglio, il cibo viene triturato; all'interno, si forma la pallottola (borra) di cui sopra. Che conterrà le parti che l'animale non assimila: peli, piume, ossa... Il tutto verrà emesso dal becco. Non si tratta di vomito, niente di patologico: non confondiamoci. Anzi: per gli uccelli è molto importante poter produrre le borre. Lo sanno bene veterinari e volontari dei centri recupero animali feriti: le specie che tipicamente producono borre - soprattutto, ma non esclusivamente, rapaci - vengono alimentate con animali interi o con parti di animali, facendo in modo che siano compresi parti dure, peli... 

Oggetti interessanti dal punto di vista scientifico, le borre: permettono di avere importanti dati sulla dieta di una specie e di ricavare notizie sulla presenza, in una zona, di animali non sempre facilmente contattabili quali i piccoli roditori.

Fin qui, la parte scientifica. Ma per i cultori della materia, sottoscritto compreso, le borre sono anche oggetto di collezione. Nei cassetti e negli armadi, a casa, credo di averne centinaia: alcune anche preziosi regali. Per un naturalista, un modo per entrare in contatto diretto con animali che, al massimo, riusciamo a vedere col binocolo o udire nel folto del bosco. 

La nostra Collinetta di Vedano non ha mancato di fornire pezzi per la mia raccolta. E' il 2004, primavera. Girando da quelle parti, scopro la presenza di tracce: resti di pasto, borre comprese. Breve indagine, e si scopre il responsabile diretto. Un nido di sparviere, proprio nel cuore della pineta ad abete rosso. Il mio archivio si arricchirà di una serie di reperti, accuratamente conservati e ancora in buone condizioni, anche a distanza di anni. La rassegna fotografica mostra una serie di campioni. Le borre, si noterà, sono piuttosto piccole, caratteristica tipica della specie. Per ogni campione, sono riportati: data e luogo di raccolta. La collezione venne integrata anche da ossa, teste e zampe di piccoli volatili.








Vita non facile, quella dello sparviere, come avviene in genere per i rapaci. Cacciare le prede non è semplice. Soprattutto se si pensa che lo sparviere si nutre di piccoli uccelli, catturati spesso nel cuore dei boschi. Ad aiutare il piccolo rapace, una capacità non comune di volo e una incredibile rapidità di movimento. Talmente rapido che non è così facile individuarne la presenza. 

Il Marco di cui sopra avrebbe trovato di lì a poco la tanto agognata prima borra della sua vita. La comunità potè tirare un sospiro di sollievo: il nostro è tuttora attivo sul campo, come Guardia Ecologica e non solo. Ma al Marco sono anche legati bei momenti in cerca di rapaci notturni. E queste, al solito, sono altre storie. Che meritano di essere raccontate.


alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato Parco di Monza

mercoledì 18 marzo 2020

Se vi manca il parco di Monza - parte 10: La Collinetta di Vedano (cap. 1)


Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

Ognuno ha, come si dice, i riferimenti culturali che si merita. Correvano gli anni '70. Impera l'olandesite. Ve li ricordate, immagino: Cruijff, Neeskens, Rensenbrink, Van Hanegem. La grande nazionale olandese: quelli che rivoluzionarono il calcio. Non è questa la sede, va da sé. Ma io inviterei a recuperare filmati della Grande Ungheria anni '50. O a ripassare la storia della pedata, concentrando l'attenzione sui grandi tecnici anni '20 e '30 della comunità ebrea di Vienna e dintorni. Si scoprirebbero altri interessanti rivoluzionari.

"Dai, ragazzi, di corsa su e giù per la collina...", incitavo i fanciulli delle settimane verde estive al Parco, qualche tempo fa. Eh, sì: all'epoca - i summenzionati anni '70 -, ero rimasto colpito da quella che - chissà - magari era una leggenda metropolitana: i giocatori dell'Ajax (principale serbatoio della nazionale orange) facevano su è giù i gradini dello stadio per allenarsi. E allora: ogni occasione è buona per riproporre lo schema. E i ragazzi non si risparmiavano: le andate e ritorno alla fine, non si contavano più per non pochi effettivi dei gruppi.
Lo scenario, nella fattispecie, altro non è che la Collinetta di Vedano, o Montagnetta, come la chiama qualcuno. Il sito è ben noto a tanti, se non a tutti. Siamo a poca distanza dalla Porta di Vedano del nostro Parco.

La genesi della altura rimanda direttamente alle origini del Parco. Siamo agli inizi dell'800. I progettisti del complesso monumentale hanno già in agenda la realizzazione di una collina artificiale, fatta con terra di riporto, in questa zona. La funzione è ben precisa: un belvedere. Non è l'unico nel nostro Parco. Al solito, tema da riprendere. E la Collinetta è già presente, come vediamo nella mappa del 1815, opera del Canonica, uno degli architetti che lavorò alla progettazione del Parco. La carta citata mostra lo stato di fatto.



Sulla carta appaiono dei filari. Si tratta di viti, messe in posto per fini estetici. Va ricordato comunque che vaste estensioni del Parco erano coltivate a viti. 
Successivamente, sulla sommità della Collinetta venne insediata una struttura in metallo con tanto di tetto: un terrazzo per gustare la vista su tutta l'area. Non conosciamo l'anno esatto di costruzione. Il manufatto appare su una delle litografie opera del Sanquirico, che ritrasse diverse vedute del Parco. La pubblicazione del Sanquirico esce nel 1830: possiamo quindi collocare la costruzione tra il 1815 e il 1830.

Nella carta del Brenna - parentesi personale: sono un tifoso del Brenna, per rimanere, almeno col gergo, in ambito calcistico - del 1845, la struttura di cui sopra viene riportata col nome di Tempietto della collina. 


La decadenza del Parco, dopo l'abbandono dei Savoia, non risparmia nemmeno la Collinetta.
Negli anni '50, la moda delle piantumazioni a conifere coinvolge anche questa parte del Parco - e non solo -: sulla Collinetta sorge un impianto ad abete rosso. Il boschetto artificiale durerà a lungo, subendo però un pesante attacco di un parassita nel 2003. 

La foto da satellite (Google Earth) mostra la situazione nel 2004 (10 dicembre): il bosco avvolge tutta la Collinetta.


Nella prima metà del decennio scorso, si decide di riportare la Collinetta agli antichi splendori. 
Il lavoro viene condotto da Claudio Corazzin, agronomo. Il lavoro di Corazzin è molto meticoloso. Punto di partenza una indagine storica. Con microrilievi molto spinti: in alcuni punti anche a livello dei 2x2 metri. L'analisi dei dati mostra che il disegno dei gradoni ottocenteschi è ancora abbastanza conservato. I gradoni erano delimitati da muri in Ceppo Lombardo (una delle rocce più tipiche del nostro territorio). Parte di queste strutture sono ancora conservate. Se salite sulla Collinetta, li riconoscete immediatamente. 
Corazzin, coi suoi collaboratori, decide di riproporre la situazione del passato. Rimettere in piedi la pineta non avrebbe senso. Riproporre le viti? L'idea viene da subito scartata: i costi di trattamento e manutenzione sarebbero rilevanti.
La scelta ricade sul ribes (Ribes spicatum): pianta abbastanza robusta. Nel 2006, il lavoro viene svolto e sarà presentato l'anno dopo. 
Il tempietto dei tempi andati? Non ci sono i fondi. Al suo posto: 4 gelsi, con l'obiettivo che le loro chiome, crescendo, si intreccino a formare una specie di tettoia vegetale. 

L'immagine (sempre Google Earth) mostra la situazione all'inizio del 2019 (il 5 gennaio).


La Collinetta, però, nasconde interessanti storie di rapaci: alla prossima puntata.
I gradini intanto sono ancora lì, per chi volesse emulare Cruijff e compari. E che lo spirito del grande Johan sia con voi.


alla prossima 
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

Se vi manca il Parco di Monza - parte 9: Su e giù per i tronchi


Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia

Foto di: Alfio Sala e Giovanni Fontana (dal blog CROS Varenna)

E’assai mimetico e, conseguentemente, non facile da osservare.
Ha un cugino diffuso sulle Alpi e sugli Appennini al quale assomiglia moltissimo.
E’agile, vivace, perennemente in movimento.
Ha un becco sottile, allungato.
Ha un piumaggio poco appariscente che si confonde con i tronchi sui quali passa la maggior parte del tempo.
Avrò suscitato la curiosità di molti con questa carta d’identità iniziale ed effettivamente il piccolo volatile di cui vado a parlare non è conosciutissimo, se non in ambito strettamente ornitologico. Si tratta del rampichino comune (Certhia brachydactyla), indefesso perlustratore di tronchi che percorre incessantemente. Il colore, un misto di striature grigie e brune, risulta decisamente poco vivace anche se armonioso nella sua uniformità. La caratteristica peculiare di questo volatile è proprio l’abitudine di esplorare i tronchi in un perpetuo andirivieni: una sorta di piccolo scalatore alato.
Il rampichino abita le foreste di latifoglie, mentre il cugino, il rampichino alpestre, si trova nei boschi di conifere: fratelli, più che cugini, visto che sono molto simili. L’alpestre ha però un canto diverso e può essere leggermente più grande, oltre ad avere il becco un po’ più corto. Differenze che passano pressochè inosservate. L’elemento fondamentale che li distingue resta la scelta dei diversi habitat.
Il nido, a forma di coppa, è posizionato tra la corteccia ed il tronco degli alberi.
Nel nostro Parco appare in aumento e può essere considerato complessivamente ben diffuso in tutti gli ambienti idonei alla specie.

Una curiosità conclusiva: i piccoli rampichini, una volta lasciato il nido, appaiono già ottimi arrampicatori.

Foto di Alfio Sala, scattata in quel del Lago di Pusiano, e pubblicata sul blog del CROS Varenna


Foto di Giovanni Fontana, scattata ai Monti di Musso, e pubblicata sul blog del CROS Varenna

Il blog del CROS Varenna CROS Varenna


Edo Melzi

martedì 17 marzo 2020

Se vi manca il Parco di Monza - parte 8: Per favore non spernacchiarmi sul collo

Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia

"Potenzialmente, il Parco potrebbe ospitare 12-15 specie di pippi", così il Massimo Favaron, grande naturalista e compagno di non poche avventure sul campo. Ci manca il Favaron, ormai da tanti anni trasferitosi in quel del Parco dello Stelvio.

Pippi? L'espressione è, più o meno, gergale. Indica i chirotteri, per il volgo pipistrelli. Il pensiero va a storie di vampiri. E, immancabile, al romanzo capolavoro Dracula di Bram Stoker. Vampirismo: confesso una attrazione per il tema. Avvezzo a dormire poche ore la notte, attribuisco il costume, per i più inusitato, ad una sorta di versione di vampirismo, personale e sui generis. 

Il Parco, diceva il summenzionato Massimo "il dott" Favaron (esperto del settore), potrebbe ospitare un numero non indifferente di specie di pipistrelli. A favorire questo gruppo di mammiferi, le estese porzioni a bosco. Le cavità negli alberi costituiscono buoni rifugi per i pippi. A ciò si aggiunga la presenza di prati che attirano gli insetti, e di ambienti d'acqua: i pipistrelli necessitano di bere.

A tutt'oggi, non abbiamo dati sulle specie presenti: uno studio completo e compiuto non è mai stato effettuato. Pecca non da poco: avere notizie nel settore avrebbe sicura importanza da punto di vista conservazionistico e gestionale. Un quadro della situazione potrebbe guidare gli interventi forestali, in modo da evitare danni a questo gruppo di animali.

A dire il vero, un abbozzo di indagine venne effettuato qualche anno fa. E mi vide clamorosamente coinvolto, e da profano assoluto nel campo. "La Noemi vorrebbe fare un censimento dei pipistrelli nel Parco", mi butta lì l'Ale Riva, altra naturalista di valore, trasferitasi a sua volta (in terra orobica). Noemi Pession, valdostana con ascendenze materne in quel di Milano, è temporaneamente di stanza sotto la Madonnina. Motivi universitari: con specializzazione e tesi sui pipistrelli svolta in aree montane. 

E' il giugno 2013. Accetto molto volentieri di dare una mano alla studiosa. Posso solo mettere in campo una conoscenza del luogo. Niente di più.

Studiare i pippi è mica affare semplice. Oltre a muoversi di notte, son tutti uguali, malnati. Il riconoscimento può essere effettuato con l'individuo in mano: bisogna osservare alcuni dettagli morfologici. Esiste un altro metodo. Il bat detector: si tratta di un apparecchio che converte le onde sonore emesse dai pippi in tracce elaborabili con speciali programmi al pc. I programmi forniscono sonogrammi che permettono il riconoscimento della specie o, in molte occasioni, solo del genere. 

La Noemi organizza le uscite: seleziona una serie di punti di censimento in cui piazzarsi con l'apparecchiatura. Anche il mio registratore è sul campo, pronto a portare a casa qualche traccia. 

Ne verranno fuori alcune uscite. E, contestualmente, diverse registrazioni.

Una è riportata qui, e rimanda ad una pagina internet, da dove potete scaricare il tutto.

Va avanti per qualche sera. Poi il progetto, ahinoi, subisce una (definitiva) interruzione. Cause esterne o di forza maggiore, che dir si voglia. 

Poca roba, a dire il vero: bene o male sempre le stesse specie. 
La registrazione merita dovuta chiosa. Il suono che udite è, appunto, l'emissione di onde che parte dall'animale. Il suono si allontana e si avvicina: a portarsi vicino o a spostarsi distante è, appunto, l'animale in volo. Al secondo 32, si ode una specie di spernacchiata: il pippi ha ingoiato un insetto in volo.

Sul sonogramma si vede la traccia del suono emesso: è riportato il momento della cattura.




Rimane qualche nota a margine. Sarebbe carino girare per il Parco e cercare cavità degli alberi occupate dai chirotteri. Si riconoscono per la presenza di chiazzate di colore biancastro sul tronco. E l'urina di questi animali, sparata fuori, appena escono la sera dai rifugi. Ci proveremo. 
Le serate al Parco videro un intermezzo tra il bizzarro e l'orrido. Altro che Dracula, verrebbe da dire. I classici minuti da brivido. Ma queste, al solito, sono altre storie.

alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza


lunedì 16 marzo 2020

Se vi manca il Parco di Monza - parte 7: Nerone è vissuto invano

Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia

"Brüsen mia i piant in del Parco di Monza", così Giorgio Buizza da Lecco qualche anno fa, nel corso di un incontro pubblico. Il Buizza è un agronomo: ha progettato, negli anni, una serie di interventi sul patrimonio arboreo del nostro Parco. E del Parco è stato anche direttore, per un breve periodo, negli anni '80. Il nostro è anche autore di bei testi sul Parco: i suoi boschi, le sue alberature, e altri aspetti del mondo vegetale.

Rimane però la questione. Il Parco è a rischio di incendi boschivi? Va fatta una analisi. Nella nostra regione gli incendi boschivi hanno alcuni caratteri specifici. Tendono a partire e a propagarsi nelle zone del sottobosco. Altro aspetto: il periodo di maggiore allerta non è - come molti potrebbero pensare - quello estivo. Sono invece i mesi invernali e la prima parte della primavera a costituire l'intervallo di tempo di maggior rischio. Il motivo è da ricercarsi nelle condizioni meteo; la quantità di precipitazioni è più bassa, e ciò favorisce lo sviluppo del fuoco. Gli incendi vanno a colpire nella gran parte dei casi le aree montane, dove queste condizioni di secchezza si manifestano in maniera più spiccata. L'umidità della nostra Pianura Padana - tanto vituperata da molti, ma non dal sottoscritto - costituisce buona difesa dai fuochi. Verrebbe anche immediata battuta: la piana padana ha ormai poche zone veramente boschive. Vero, anche se non dobbiamo dimenticare le importanti zone forestali del Ticino e - perchè no? - del nostro Parco.

Il nostro Parco è quindi abbastanza sicuro, come indicava con rapida battuta il Buizza. Nell'800, tuttavia, il Canonica - architetto ticinese cui dobbiamo tanta parte del disegno dell'intero monumento verde - aveva previsto la realizzazione di un bacino d'acqua (un laghetto) che avrebbe avuto duplice funzione: irrigazione e spegnimento di incendi. Il progetto rimase confinato sulle carte. E' stato poi ripreso dall'architetto Benevolo, nel 1995, all'interno del Piano Regolatore del Comune di Monza. La mappa mostra la collocazione dello specchio d'acqua (circa 5 ettari di superficie), che riprende la proposta del summenzionato Canonica. Anche in questo caso, il disegno è rimasto tale. Detto inter nos, si tratterebbe di un manufatto non propriamente urgente. E anche di complicata realizzazione, per problematiche di approvvigionamento idrico.


Qualche incendio, tuttavia, ha funestato la storia recente del Parco. Tra il 1987 e il 1990 (un incendio all'anno), bruciarono le tribune del vecchio ippodromo. I vigili del fuoco trovarono tracce di liquidi infiammabili. Non si è mai individuata una pista che portasse al colpevole. Una ipotesi parlava di coinvolgimento del mondo delle scommesse clandestine milanesi, che non vedevano di buon occhio una possibile riattivazione dell'impianto monzese. La cancellazione dell'ippodromo locale è stata buona cosa: ha permesso di restituire al Parco una importante superficie.

Nel 2008, il 28 agosto, un incendio ha parzialmente distrutto la sede del golf. In questo caso, si trattò di un incidente. Lo scorso anno, 25 agosto, del fumo si è alzato improvvisamente all'interno della mura, nella zona a ridosso di via Lecco. Allarme prontamente lanciato: si trattava di 3 sprovveduti - eufemismo - che volevano girare un video. Le cronache parlano di "un set vero e proprio con tanto di tendine per inscenare una consegna di cibo nella foresta" (cfr. MBNews del 26 agosto 2019). Per farlo, han dato fuoco a delle foglie. La lavata di capo dei vigili del fuoco, si spera, dovrebbe aver rimesso in ordine le idee dei piromani improvvisati.

Già, i piromani. Il sottoscritto, come tanti, è stato parte della categoria. E legata al fuoco è una leggenda metropolitana che mi vede protagonista principale e unico. Ma queste sono altre storie.

alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

Se vi manca il Parco di Monza - parte 6: La cinciarella



Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia

Specie legata a parchi e grandi giardini, la cinciarella colpisce per lo splendido piumaggio: capo con un delizioso zucchetto blu, guance bianche striate di nero, ali con prevalenza di azzurro intenso che sfumano nel grigio-blu, parti inferiori gialle. A questa tavolozza di colori si unisce l’indole estremamente vivace, che ha in comune con le altre cince, e la simpatica abitudine di appendersi a testa in giù sui rami. I due sessi sono simili anche se la femmina appare leggermente più opaca.

Non è raro osservarla insieme ai codibugnoli: trattasi, infatti, di uccellino estremamente socievole. La si ammira sempre con grande piacere, considerata anche la bellezza della livrea e, nel parco di Monza, sembra proprio trovare l’habitat ideale. Mi è capitato di osservarla più volte ed in diversi punti, sia in prossimità del Lambro, sia nei boschi. La nostra amica preferisce infatti le fustaie di latifoglie a quelle di conifere, pur potendosi spingere fino a 1600 metri di quota.

La dieta cambia a seconda della stagione: preferisce i piccoli invertebrati d’estate sostituiti da frutti e semi in autunno e inverno. Il nido è prevalentemente costruito nelle cavità degli alberi. Mi colpisce il fatto che la femmina arrivi a deporre fino a più di 10 uova per covata: un numero davvero considerevole per un volatile che non supera i 12 centimetri!  

Edo Melzi

domenica 15 marzo 2020

Se vi manca il Parco di Monza - parte 5: La Roggia della Villa Reale (cap. 1?)

Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

Alla fin fine, ognuno ha le predisposizioni che si merita. Negli ahimè lontani anni verdi, percorrere il Pratone dei Giardini della nostra Villa Reale - che qualcuno, tripla rabbia per noi monsciaschi, ha preso ostinatamente a chiamare Reggia - significava per me puntare verso quello che mi appariva come uno stagno. Arrivato alla sponda, lato verso la Villa, il passo si fermava: per evitare di finire in acqua e per non arrecare disturbo al piccolo ecosistema. L'ecologia era disciplina ancora ai primi vagiti, la parola inquinamento era vocabolo in via di diffusione. In ogni caso, quel ciuffo di vegetazione acquatica che sporgeva dallo specchio d'acqua suscitava nel sottoscritto una sorta di sacralità. Le estremità finivano comunque inumidite. 

Passarono gli anni, il rapporto col Parco venne consolidandosi. E con esso le conoscenze. Lo stagno della fanciullezza altro non era che una roggia. La Roggia della Villa Reale o dei Giardini Reali. Luogo di grande interesse e, va detto, uno degli ecosistemi più preziosi del nostro martoriato territorio. Alla Roggia va dedicata più di una puntata su queste pagine, sissignori.

La mappa (presa da OpenStreetMap) mostra il percorso della Roggia. Parte dal Laghetto della Villa Reale. Forma un piccolo specchio d'acqua: è la vasca posta alla base della cascatella, nella zona del Giardino Anglo-Cinese. Percorre poi il Pratone dei Giardini. Entra successivamente nel Parco, zona Cascina del Sole. E va a riempire il Laghetto della Valle dei Sospiri. Da questo Laghetto esce e si immette nell'asta di un'altra roggia storica: la Pelucca. 


Da dove proviene l'acqua della Roggia? "Dal Laghetto", potrebbe rispondere qualcuno. Già, e il Laghetto? Torniamo indietro nel tempo.
Quando Ferdinando, Arciduca d'Austria di stanza qui in Lombardia, riesce ad ottenere i soldi per costruire la Villa e realizzare i Giardini, si accorge dopo un po' che il Laghetto e i progettati giochi d'acqua han bisogno di essere alimentati. La mamma, nientemeno che Maria Teresa, invia lettere di rimprovero al figlio (prediletto). La richiesta di Ferdinando era semplice, si fa per dire: portare acqua dal Lambro, che non era propriamente vicino. 

La soluzione viene trovata. Si vada a monte a captare acqua. Il luogo: il Molino Bassi di Sovico, pensa te. Da lì partirà quella che sarà definita la Roggia del Principe, in onore del buon Ferdinando. Siamo nel 1783, la Villa è stata in gran parte completata da circa 3 anni. 

Nella mappa di può vedere il punto di captazione, a Molino Bassi. Non era però localizzato direttamente sulla sponda del Fiume Lambro, ma da una derivazione dal medesimo, che forniva energia alle macine. La Roggia non è più attiva: i costi di manutenzione sarebbero improponibili. Il manufatto è ancora riconoscibile per lunghi tratti: da riparlarne a lungo.


La Roggia del Principe nacque proprio per rifornire il nostro Laghetto. E oggi? Se vi portate nella zona del Tempietto Dorico, trovate un breve canale (visibile in carta). E' l'immissario del Laghetto. l'acqua viene dal sottosuolo, aspirata da una pompa, comandata da una sorta di locale macchine situato alla Cascina Bastia. 


Ma la Roggia del Principe/Roggia della Villa Reale fornisce miriadi di spunti. Tra natura e storia. E - perchè no? - storielle... E spettacolari microscopici abitanti. Chi avrebbe detto anni fa che un giorno avrei osservato con un microscopio piccoli organismi di quella affascinante zona umida?

alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco

sabato 14 marzo 2020

Se vi manca il Parco di Monza - parte 4: Il mistero dei bivalvi


Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.

"Bambini, basta con queste conchiglie... Siamo qui per altre attività", sgrida la Vincenza Villa, maestra in quel di Concorezzo e concorezzese DOC. La collega Silvana scuote la testa, senza speranze.

Siamo nel febbraio del 2016. Il progetto con la allora classe seconda riguarderebbe alcuni aspetti legati alla agricoltura sul nostro territorio. E il Parco di Monza è tuttora scenario di attività agricole. Nel passato, fu, come sappiamo, vera e proprio tenuta modello. 

Nella zona un tempo in concessione alla Facoltà di Agraria - concessione in realtà ancora in essere -, sono accumulati i fanghi da dragaggio della Roggia della Villa Reale. Le operazioni han coinvolto gli operatori durante la fase invernale. La rimozione dei detriti di fondo è operazione da farsi però con le dovute accortezze. Andrebbe fatta solo ogni 10 anni. E non di frequente: ne riparleremo.

Il materiale rimosso non è roba da poco. Qui sui pratoni, un cumulo di terra e fanghiglia. E una gran messe di conchiglie. Han l'aspetto di cozze, presa alla larga. Chi frequenta il Parco ricorderà di sicuro la curiosa presenza di questi bivalvi, che fan pensare ad orizzonti marini. All'epoca, le conchiglie si trovavano sparse al suolo, nella zona del Giardino Anglo-Cinese. Si narra che qualche teppistoide perdigiorno si divertisse ad estrarle dall'acqua. Le conchiglie erano davvero tante: una situazione anomala. I summenzionati bambini di Concorezzo non potevano non lanciarsi nella raccolta, con la mente rivolta - sicuro come l'oro - a giornate spese su qualche battigia.

Non pochi, nel vedere queste conchiglie, si lanciavano in teorie tra le più disparate, arrivando ad ipotizzare strani movimenti di specie marine. Misteri che inquietano i più. Nossignori: sono molluschi tipici delle acque dolci. Abbiamo diverse specie. Le conchiglie della foto sono della specie Anodonta cygnea. Abbiamo poi Unio elungatus. Le due specie sono abbastanza simili per gli occhi poco allenati. 


Sono presenti da noi da sempre. Come spiegava Vincenzo Donnarumma (grande naturalista) in uno dei volumi della collana "il Parco, la Villa", questi animali un tempo abitavano anche il Lambro. Il peggioramento delle condizioni delle acque del nostro fiume, che un tempo alimentava direttamente il Laghetto della Villa Reale e la Roggia che da esso diparte, ha causato la loro scomparsa. Si sono invece conservate negli ambienti d'acqua dei Giardini della Villa Reale.

Abitano il fondo delle acque, gli Anodonta, infossati nel fango. 

Rimane però il mistero. Come mai nel periodo 2015-2016 le popolazioni dei bivalvi sono esplose a quella maniera? La spiegazione ci viene dal Luca Dal Bello, biologo trentino che all'epoca studiava le acque della Villa Reale. I lavori sui fanghi del Laghetto hanno messo in movimento una gran quantità di nutrienti: situazione favorevole allo sviluppo di questi animali. 

Le conchiglie degli Anodonta possono anche raggiungere dimensioni consistenti: anche lunghezze pari a 10-15 cm. Spero un giorno di trovare qualcuno di questi giganti.

Nota a margine. La maestra Vincenza di cui sopra merita una citazione. Tanti anni di collaborazione e di attività tra lei e il sottoscritto. La nostra ha concluso il suo ciclo qualche mese fa: sacrosanta pensione. Ricordarla con un ringraziamento e un apprezzamento per il grande contributo dato alla comunità mi sembra il minimo. 

alla prossima
Matteo Barattieri - Comitato per il Parco di Monza

venerdì 13 marzo 2020

Se vi manca il Parco di Monza - parte 3: Il tetto del Parco


Il nostro Parco è chiuso per l'emergenza. Ci manca. E allora: una serie di testi e immagini per alleviare la nostalgia.


Qual è il punto più alto del nostro Parco? La domanda si presta a diverse interpretazioni. "La torre della RAI", risponderebbero, senza dubbio, in tanti. Il manufatto, coi suoi 55 metri di altezza, non avrebbe rivali. Non è l'unico edificio che si sviluppa verso il cielo. La Torretta dei Giardini della Villa Reale, le torri del Mirabello, le altane di alcune cascine: il tema, come si vede, è alquanto corposo. E merita approfondimenti a parte.

Ma rimane la questione aperta. La domanda faceva in realtà riferimento alla quota sul livello del mare del terreno. Esperienza comune a tanti se non a tutti, il nostro Parco non giace su una superficie piana omogenea e priva di variazioni. Non mancano i dislivelli. Tra i più famosi, la discesa per eccellenza e antonomasia, quella della RAI. Sulla quale si sono cimentati tanti monzesi in età verde, muniti di trabiccoli improvvisati e più o meno riusciti. Non sgradita ai fanciulli è la discesa della Fasanera, sul Viale di Vedano. La Fasanera (Fagianaia nell'italico idioma) altro non è che l'antiquo nome dell'attuale ristorante Saint George Premiere. 

Esistono poi alcune collinette e alture di origine artificiale, progettate per rendere più mosso il paesaggio. Opera degli architetti che han dato all'intera area, nel corso dell'800, un disegno complessivo. La più famosa è sicuramente la Montagnetta di Vedano, che merita a sua volta una trattazione a sè.

Per trovare il punto più alto, dobbiamo valerci della cartografia. La banca dati cartigrafica della Provincia di Monza ci viene in aiuto. 198.57 metri sul livello del mare: il punto quotato rappresentato nella sezione della carta (CTR DBT) è il punto più alto all'interno della Mura.





L'edificio a ferro di cavallo posto poco distante altro non è che la Cascina Costa Alta. Siamo quindi nella parte nord del Parco, una zona che confina con il comune di Biassono. L'area è una spianata: costituisce uno dei terrazzi fluviali che compongono il nostro Parco. Ma queste, come si dice, sono altre storie.

alla prossima

Matteo Barattieri

giovedì 12 marzo 2020

Se vi manca il Parco di Monza - parte 2: La voce degli aironi



Parco chiuso per l'emergenza sanitaria. Ci manca. E allora: qualche testo e qualche immagine: antidoti alla nostalgia. E non solo immagini e testi....


La passione per la fotografia coinvolge tanti. Una moltitudine cerca quotidianamente l'istantanea se non della vita, almeno della giornata. Il sottoscritto, maledettamente inadatto a prendere in mano l'obiettivo, non è parte della tribù che va per la maggiore. Nossignori: la fotografia è per me mero strumento per documentare. Punto. Niente conati artistici. Niente - patetiche, nel caso - aspirazioni estetiche. 

Esiste, però, un altro mondo, più o meno parallelo a quello delle fotografie. Il mondo dei suoni, non propriamente contrapposto - va da sè - a quello delle immagini. Tonalità e sonorità del circostante, paesaggi acustici, fino alle emissioni vocali che contraddistinguono parlate, vernacoli ed idiomi: universi e magmi appassionanti, ebbene sì. E' in questi scenari che preferisco muovermi, quando il tempo lo concede. E per un naturalista, le emissioni vocali dei pennuti costituiscono campo di grande fascino ed interesse. Di più. in molti casi, la presenza di una specie di uccello può essere individuata solo grazie al suo canto o al suo richiamo.

Dove altri dan di digitale o smartphone, il sottoscritto maneggia microfoni e registratore. Ne esce una audioteca che può dare soddisfazioni. 

Una garzaia - ovvero una colonia di nidi di aironi - a poca distanza da casa, e nell'amato Parco costituisce occasione ghiotta. Purtroppo, va detto, la posizione non è delle migliori. La zona è tormentata dal passaggio di umani. La sensibilità del microfono, pur direzionale, capta anche tracce acustiche extra: chiacchiericcio, pedate di corridori, grida... 

7 marzo 2020. La mattina, sotto la garzaia, sotto i nidi. L'apparecchiatura immortala un po' di vocalizzazioni dei nostri aironi. Non aspettatevi, ovvio, gradevoli tracce acustiche. Vale il documento.

E analizziamo la documentazione. 
Le registrazioni sono caricate su una fantastica piattaforma: xeno canto. Potete ascoltare le tracce e potete scaricarle. 

Registrazione A
Un breve richiamo di un individuo.

Questo il relativo sonogramma: il grafico mostra: sull'asse verticale la frequenza (khz), sull'asse orizzontale il tempo (in secondi).


Registrazione B

Qui abbiamo due individui: A e B. 
Se ascoltate la traccia guardando il sonogramma, potete riconoscere i due aironi. I loro versi sono ben distinguibili. La registrazione ha anche immortalato il canto di un fringuello maschio (vedi sonogramma).



Registrazione C
Una serie di brevi richiami di un individuo.




Alla prossima
Matteo Barattieri